Si è chiusa senza colpevoli una delle indagini più rilevanti sulla cannabis light in Italia. A Torino, il giudice ha archiviato le accuse di produzione e traffico di stupefacenti nei confronti di 14 tra produttori e commercianti, indagati da oltre due anni.
Nel 2023 i carabinieri del NAS avevano sequestrato quasi due tonnellate di infiorescenze di canapa, per un valore stimato di 18 milioni di euro, effettuando controlli e perquisizioni in 49 aziende, abitazioni e negozi sparsi in varie province. Secondo gli investigatori quei prodotti contenevano livelli di THC considerati “droganti”. Le analisi successive hanno però smentito questa ipotesi: la quasi totalità della merce rispettava i limiti di legge, mentre i pochi campioni non conformi non erano stati ancora messi in commercio. Per il pubblico ministero si trattava quindi di attività sostanzialmente legittime e il tribunale ha ordinato l’archiviazione del procedimento e la restituzione del materiale.
Il problema è che quella stessa merce oggi non potrebbe avere più mercato. Con l’approvazione del Decreto Sicurezza lo scorso aprile, la cannabis light è stata equiparata alla marijuana ad alto contenuto di THC. La norma vieta in maniera assoluta coltivazione, trasformazione, importazione e vendita, cancellando di fatto un intero comparto produttivo. Una decisione che ignora sia le pronunce della Cassazione e della Corte di Giustizia europea, sia le evidenze scientifiche che escludono effetti psicotropi dalla canapa legale.
Le ricadute economiche rischiano di essere devastanti. In Italia operano circa tremila imprese legate al settore, spesso guidate da giovani sotto i 35 anni. Le associazioni stimano oltre 22mila posti di lavoro in pericolo e un giro d’affari da 2 miliardi di euro l’anno pronto a dissolversi.
A complicare ulteriormente la situazione è la disomogeneità nell’applicazione della legge. Ad aprile 2022, un imprenditore agricolo era stato condannato per il possesso di 721 chili di canapa industriale; lo scorso giugno, però, la Corte d’Appello di Cagliari ha ribaltato la sentenza, riconoscendo la piena legalità della sua attività e disponendo la restituzione del raccolto, nonostante il decreto fosse già in vigore. Vicende simili, come quella della nota azienda EasyJoint di Parma, si sono concluse con assoluzioni e dissequestri.
Questo contrasto tra tribunali che continuano a riconoscere la legittimità del settore e una normativa che lo vieta totalmente evidenzia tutta l’ambiguità del quadro attuale. Molte attività restano aperte, in attesa di chiarezza e di una legge stabile che non soffochi un comparto nato dall’innovazione e dall’intraprendenza di migliaia di giovani imprenditori.
Il caso torinese conferma che la cannabis light rispettava le regole. Ma il nuovo impianto normativo varato dal governo Meloni ha reso illegale, da un giorno all’altro, uno dei settori agricoli e commerciali più promettenti degli ultimi anni.
Da anni onesti imprenditori subiscono sequestri di merce, perdite economiche e gravi ripercussioni personali, per poi essere infine assolti. Una condizione che si configura come una vera e propria forma di persecuzione da parte dello Stato, ormai divenuta intollerabile per chi opera nel settore.
Ricordiamo, inoltre, che l’illegalità introdotta dal Decreto Sicurezza rischia di entrare in conflitto con eventuali pronunce giudiziarie, poiché nessun imprenditore potrà essere condannato per spaccio di stupefacenti qualora i prodotti contestati risultino privi di effetti psicotropi.