Negli Stati Uniti sta emergendo una nuova categoria di consumo che sta attirando grande attenzione: le bevande alla cannabis a base di THC, quasi sempre analcoliche e a basso dosaggio. Questi prodotti, nati per lo più fuori dai dispensari tradizionali, stanno trovando spazio sugli scaffali delle grandi catene di vendita di alcolici e sulle piattaforme di delivery come DoorDash. La loro diffusione segna un cambio di paradigma: si presentano nello stesso formato delle birre leggere e degli hard seltzer, ma offrono un effetto euforizzante senza alcol, creando una concorrenza diretta al mercato del beverage tradizionale.
La possibilità di produrre e distribuire queste bevande deriva dal Farm Bill del 2018, che ha legalizzato la canapa con un contenuto di THC inferiore allo 0,3%. Attraverso lavorazioni specifiche, i produttori riescono a ottenere derivati psicoattivi da immettere legalmente sul mercato, aggirando in parte il rigido quadro federale sulla marijuana. L’FDA mantiene però la posizione che l’aggiunta di cannabinoidi negli alimenti non sia conforme alle norme vigenti, lasciando un vuoto regolatorio che si traduce in un mosaico di regole diverse da Stato a Stato. In questo contesto, il Minnesota è diventato un laboratorio di sperimentazione: qui le bevande alla cannabis sono state legalizzate e dal 2024 possono persino essere servite alla spina in bar e birrifici, segnando un salto culturale importante. Altri Stati, come il Texas, tentano invece di limitarne la diffusione con divieti e restrizioni.
Nonostante il giro d’affari complessivo resti ancora ridotto rispetto al mercato globale della cannabis, i dati mostrano una crescita superiore alla media. Nel 2023–2024 le vendite hanno superato i 50 milioni di dollari e i brand leader, come Cann, Pabst Labs e Wynk, hanno conquistato posizionamenti strategici. Le motivazioni del successo sono chiare: dosaggi controllabili, effeto più rapido rispetto agli edibles, ritualità del bere in compagnia e un’immagine più moderna e salutare rispetto all’alcol. Tuttavia, permangono rischi legati al sovradosaggio, agli effetti più intensi del previsto e alla combinazione con bevande alcoliche.
Le aziende del beverage tradizionale guardano con crescente attenzione al fenomeno. Alcuni colossi, come Boston Beer, hanno lanciato linee di test sul mercato canadese e statunitense; altri, come Molson Coors o Constellation Brands, hanno ridimensionato i propri investimenti nel comparto cannabis dopo esperienze costose. Il punto cruciale è che le bevande al THC non stanno solo sottraendo spazio agli alcolici, ma anche erodendo il segmento no/low alcol e le alternative analcoliche. La concorrenza si gioca soprattutto sulla “prima bevanda” della serata: al posto di una birra leggera, un consumatore può scegliere una lattina da 2–5 mg di THC.
Il futuro della categoria dipenderà da tre nodi regolatori: l’impossibilità attuale di mescolare legalmente alcol e cannabis sotto l’egida federale, l’iter di riclassificazione della marijuana in Schedule III da parte della DEA e l’eventuale revisione del Farm Bill che potrebbe ridisegnare le regole sul THC derivato dalla canapa. In attesa di una cornice chiara, i produttori di alcolici si trovano davanti a una scelta: ignorare il fenomeno o presidiare il nuovo territorio con linee dedicate, costruendo un portafoglio parallelo che possa soddisfare consumatori in cerca di alternative più leggere, controllabili e sociali.
Le bevande alla cannabis non hanno ancora travolto il mercato degli alcolici, ma hanno conquistato nuovi spazi simbolici e distributivi che un tempo sembravano inaccessibili. La loro forza non è la potenza del principio attivo, bensì la normalizzazione del gesto: una lattina fredda, condivisa in compagnia, con un effetto diverso ma familiare. Per l’industria dell’alcol questo non è solo un campanello d’allarme, ma anche un’opportunità per ripensare il concetto stesso di “bere sociale” in un’epoca in cui la ricerca di benessere e leggerezza sta ridefinendo le regole del gioco.