In Piemonte un imprenditore subisce un furto. La polizia recupera la refurtiva, ma anziché restituirla lo denuncia per spaccio. Il caso che solleva interrogativi su legge, ignoranza e arbitrio.
Un furto, una chiamata alla polizia, l’intervento degli agenti, la refurtiva recuperata. Sembra l’epilogo positivo di una brutta disavventura per un commerciante piemontese. E invece, si trasforma in un incubo kafkiano: la vittima finisce sotto inchiesta per spaccio di stupefacenti.
È successo all’alba del 17 giugno in Piemonte. Un passante nota due individui che escono furtivamente da un negozio con dei sacchi in mano. Intuisce che qualcosa non va, chiama la polizia. Gli agenti intervengono tempestivamente, fermano i sospetti e recuperano il materiale rubato. Fin qui tutto nella norma.
Ma la storia prende una piega grottesca quando la polizia accompagna il proprietario del negozio — un imprenditore del settore della canapa industriale — per riconsegnargli la merce sottratta. Scoprono che si tratta di infiorescenze di canapa. “È legale questa roba?”, chiede un agente. La risposta non arriva da un codice penale o da una circolare ministeriale. No, la verifica avviene con una rapida ricerca su Google. “Risulta che non è più legale da inizio mese”, conclude l’agente, riferendosi all’articolo 18 del DL Sicurezza. Così, invece di restituire il maltolto, la polizia sequestra tutto e denuncia il commerciante per violazione dell’articolo 73 del Testo Unico sugli stupefacenti — lo stesso che si applica a chi spaccia cocaina o eroina. Non solo: gli viene sequestrato anche il cellulare personale.
Una situazione paradossale, che riflette in modo allarmante la confusione normativa che avvolge il settore della canapa industriale in Italia. Il commerciante denunciato non è un trafficante: è un imprenditore che opera in un settore regolarmente riconosciuto, vendendo prodotti con contenuto di THC a norma di legge, come previsto dalla legge 242/2016 e da successive circolari.
Il problema, però, è duplice: da un lato, l’articolo 18 del DL Sicurezza che non trova la sua applicabilità sul piano giurisprudenziale; dall’altro, un approccio approssimativo da parte di alcuni agenti, che si affidano a ricerche online senza aver avuto indicazioni sul tema e quindi una possibile interpretazione. È l’applicazione della legge in modalità “fai-da-te”, e le conseguenze sono devastanti per chi lavora onestamente.
Il paradosso è sempre lo stesso: l’articolo 18 del nuovo DL Sicurezza vieta qualsiasi forma di lavorazione o commercializzazione de fiore di canapa industriale, applicando allo stesso la legge 309/90 che disciplina le sostanze stupefacenti. Ma c’è un incongruenza molto semplice: il fiore di canapa industriale, come afferma la scienza tossicologica, non è uno stupefacente; quindi, l’articolo 18 risulta inapplicabile in riferimento alla legge 309/90.
Episodi come questo sono sempre più frequenti. I negozianti del settore denunciano un clima di costante incertezza, vessazioni arbitrarie e controlli basati su pregiudizi anziché su norme chiare. La canapa industriale non è droga, ma per alcuni rappresentanti delle istituzioni resta un tabù da reprimere, nonostante non ci siano evidenze scientifiche né giuridiche a supporto di tale atteggiamento.
Nonostante tutto, la risposta degli imprenditori del settore è di dignità e resistenza. “Non ci fermeremo”, dicono in coro. “Abbiamo il diritto di lavorare. Non siamo criminali. È il legislatore che deve assumersi la responsabilità di fare chiarezza”.
Fino a quel momento, chi lavora con la canapa legale continuerà a lavorare fuori dalla legge secondo lo Stato, ma secondo legittimità per quando riguarda la giurisprudenza. Tutto ciò grazie a maestri d’intelligenza seduti sulle poltrone governative che hanno creato una legge (art.18 DL Sicurezza) che invece di migliorare o normare il settore canapicolo italiano, ha catapultato oltre 20 mila persone dall’incertezza dovuta ad un vuoto normativo, all’incertezza dovuta da un conflitto tra legge e giurisprudenza.