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------> Il Tribunale di Sassari ha emesso un’ordinanza che rappresenta una svolta per il settore della canapa industriale in Italia. Con la decisione n. 32+33/25 del 23 ottobre 2025, i giudici hanno annullato il decreto di convalida del sequestro probatorio e disposto la restituzione di 200 chilogrammi di materiale vegetale – foglie e infiorescenze – e di oltre 6.000 piante di canapa industriale a due coltivatori. Una decisione che ribadisce un principio fondamentale: in assenza di prove che attestino il superamento della soglia legale di THC, la coltivazione di canapa industriale è da considerarsi lecita.

L’Europa coltiva il futuro, l’Italia lo teme: Bruxelles semina, Roma censura

L’Unione Europea ha ormai stabilito con chiarezza che la canapa industriale è una coltura agricola pienamente legittima, non una curiosità botanica né un tema da trattare come eccezione. La considera una pianta utile, sostenibile, parte integrante delle politiche verdi e della nuova economia circolare. Rientra infatti nella Politica Agricola Comune (PAC), con varietà certificate e un contenuto di THC non superiore allo 0,3%. È un riconoscimento che vale più di mille parole: l’Europa non teme la canapa, la coltiva, la regola e la trasforma in risorsa.

Ciò che molti fingono di non sapere è che Bruxelles non ha mai limitato questo riconoscimento ai soli steli o semi. Anche il fiore della canapa industriale viene considerato un prodotto agricolo, non un materiale “pericoloso”. La Corte di Giustizia europea ha chiarito che i derivati a base di cannabidiolo (CBD) ottenuti da tutta la pianta non sono stupefacenti e che nessuno Stato membro può vietarne la circolazione se prodotti legalmente in un altro Paese dell’Unione. Questo significa una cosa molto semplice: il fiore della canapa industriale, se rispetta i limiti di legge, è parte legittima dell’economia agricola e del mercato comune. Tutto il resto è ideologia, paura o convenienza politica.

In Europa il settore corre. Dalla Francia alla Germania, passando per i Paesi Bassi, la Polonia e la Lituania, la canapa è tornata nei campi e nelle fabbriche. Non si coltiva per moda, ma per costruire. Le fibre vengono trasformate in isolanti per la bioedilizia, in tessuti, in bioplastiche; i semi diventano olio e farine proteiche; i fiori, materia prima per estratti, cosmetici e prodotti naturali. È un’economia che cresce silenziosa ma costante, trainata dall’innovazione e dal bisogno di alternative sostenibili a petrolio, cotone e cemento. Oggi in Europa la canapa non è più un “esperimento”, ma un comparto industriale in piena espansione, con filiere integrate e standard qualitativi sempre più precisi.

E l’Italia, che un tempo era tra i maggiori produttori mondiali di canapa, dove si colloca in questa corsa? Potenzialmente al vertice. Abbiamo un clima perfetto, una tradizione agricola millenaria, un tessuto di piccole e medie imprese pronte a investire, università che studiano nuove varietà e tecniche di trasformazione, e una posizione geografica strategica per il commercio mediterraneo. Tutto sembra apparecchiato per un ritorno da protagonisti.

Eppure rischiamo di restare ai margini. Perché? Perché la politica, o meglio una parte di essa, continua a guardare la canapa con sospetto, come se fosse un vizio travestito da pianta. Invece di aggiornare la normativa e armonizzarla con quella europea, si preferisce agitare paure e creare confusione. Si parla di “droga” quando si tratta di varietà certificate; si minacciano divieti generalizzati sulle infiorescenze; si alimenta un clima di incertezza che scoraggia gli investimenti e fa scappare le aziende. Così i coltivatori italiani si trovano con un piede in campo e l’altro nel labirinto burocratico, mentre i competitor stranieri firmano contratti, costruiscono impianti e commercializzano la canapa in tutto il continente.

Il paradosso è evidente: l’Italia possiede i mezzi per essere leader e invece rischia di diventare l’eterno rincalzo. In un momento storico in cui l’Unione Europea promuove filiere verdi e prodotti sostenibili, noi stiamo discutendo se un fiore di canapa “possa esistere” o meno. È come se, ai tempi della rivoluzione industriale, avessimo deciso di vietare il cotone per paura del tessile. Questa miopia non protegge nessuno: soffoca gli agricoltori, blocca l’innovazione e regala interi segmenti di mercato ad altri Paesi.

La verità è che il fiore della canapa non è il nemico, ma la chiave economica che rende sostenibile la coltivazione. Senza di esso, la pianta perde redditività, specialmente in regioni dove i costi agricoli sono più alti. Vietare o criminalizzare le infiorescenze significa condannare la canapa a essere una coltura di passaggio, utile solo sulla carta, mentre altrove genera valore e lavoro.

Ciò che serve è una visione industriale, non moralistica: controlli seri, tracciabilità, ricerca pubblica, incentivi alla prima trasformazione, regole chiare che diano sicurezza a chi investe. L’Europa ha già aperto la strada; sta a noi decidere se percorrerla o restare fermi ai pregiudizi del secolo scorso.

L’Italia potrebbe essere la capitale europea della canapa industriale, un simbolo di innovazione agricola e sostenibilità. Ma se continueremo a lasciarci frenare da vecchie paure e logiche punitive, saremo solo spettatori di un mercato che, ironia della sorte, era nato proprio qui.

La canapa non è il passato. È il futuro agricolo, industriale e ambientale dell’Europa. Il fiore, che oggi qualcuno vuole cancellare per ignoranza o calcolo politico, è la sua parte più viva, quella che profuma di libertà, lavoro e progresso.

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