Per decenni si è sostenuto che l’uso di cannabis rappresenti una sorta di “porta d’ingresso” verso droghe più pesanti. Questa idea, conosciuta come “teoria del passaggio”, ha influenzato leggi, campagne di prevenzione e immaginario collettivo. Eppure, le basi empiriche su cui poggia appaiono sempre più fragili. Un recente studio pubblicato su Neuropsychopharmacology Reports da Masataka e colleghi (2025), intitolato Revisiting the Gateway Drug Hypothesis for Cannabis: A Secondary Analysis of a Nationwide Survey Among Community Users in Japan, offre nuovi dati che mettono seriamente in discussione l’assunto centrale della teoria: che la cannabis conduca inevitabilmente o con alta probabilità all’uso di sostanze più pesanti.
I ricercatori hanno analizzato un ampio campione di quasi quattromila cittadini giapponesi con esperienze di consumo di cannabis. I risultati mostrano che nella maggior parte dei casi le prime sostanze d’ingresso non sono state la cannabis, ma il tabacco e l’alcol. La cannabis appare spesso come terza sostanza, inserita in un percorso già iniziato. Inoltre, le probabilità di passaggio dalla cannabis ad altre droghe risultano sorprendentemente basse: circa 1,25 per l’alcol, 0,77 per il tabacco, 0,08 per la metanfetamina e 0,78 per altre droghe illecite. Ancora più rilevante, più della metà degli intervistati non ha mai proseguito verso altre droghe dopo aver provato la cannabis. In sintesi, nel contesto giapponese l’uso di cannabis raramente porta a un consumo successivo di sostanze più pesanti.
Questo non significa che la teoria del passaggio sia completamente priva di fondamento, ma suggerisce che la sua validità sia tutt’altro che universale. E soprattutto mette in luce un problema di fondo: la tendenza a trasformare una correlazione statistica in una relazione di causa-effetto. È vero che, in molti studi, chi consuma droghe pesanti ha quasi sempre avuto esperienze precedenti con cannabis, ma ciò non implica che sia stata la cannabis a “spingerli” verso quelle droghe. Potrebbero esistere fattori comuni — psicologici, genetici, ambientali o sociali — che predispongono alcune persone a sperimentare più sostanze. La teoria del passaggio, nel suo impianto tradizionale, tende a ignorare queste complessità e riduce tutto a una sequenza lineare: droga leggera → droga pesante.
Un altro elemento che emerge dallo studio è l’importanza del contesto culturale e normativo. In Giappone, dove la cannabis è rigidamente proibita e fortemente stigmatizzata, il consumo avviene in condizioni molto diverse da quelle occidentali. Eppure, anche in un ambiente così restrittivo, non si osserva quella progressione “fatale” verso sostanze più dure. Questo dato suggerisce che il modello del passaggio non è universale ma culturalmente condizionato. Non si tratta quindi di una legge biologica, ma di una costruzione sociologica che riflette più il clima politico e morale di un’epoca che l’evidenza scientifica.
La persistenza della teoria del passaggio è in gran parte spiegabile proprio per la sua utilità ideologica. È un racconto semplice, emotivamente potente e politicamente conveniente. Consente di giustificare politiche repressive, campagne moralizzatrici e un approccio paternalista alla questione delle droghe. “Se cominci con la cannabis, finirai con l’eroina” è una frase che ha plasmato generazioni di discorsi pubblici, ma che regge sempre meno al vaglio dei dati. Lo studio giapponese, in questo senso, non è solo un’analisi statistica: è una lente che mostra come la paura possa essere scambiata per scienza.
Una prospettiva più realistica riconosce che il consumo di sostanze segue percorsi molteplici, non lineari, e dipende da una rete complessa di fattori individuali, sociali e culturali. La cannabis può essere, per alcuni, una tappa in un percorso di esplorazione, per altri un punto di arrivo, per molti un’esperienza isolata. Non esiste una direzione obbligata né un destino comune. Parlare di “passaggio” implica invece una direzione inevitabile, come se il consumo di cannabis avesse un potere di trascinamento quasi magico, indipendente da chi la usa, da dove e da come.
Questa visione fatalista si rivela non solo scientificamente imprecisa, ma anche dannosa. Alimenta lo stigma verso chi fa uso di cannabis, ostacola politiche di riduzione del danno e riduce la complessità dei comportamenti umani a un unico copione. Lo studio di Masataka e colleghi ci invita invece a spostare l’attenzione: non sulla sostanza come presunto motore di altre dipendenze, ma sulle vulnerabilità condivise — disagio psicologico, emarginazione sociale, mancanza di supporto, curiosità giovanile non accompagnata da educazione. Sono questi gli elementi che, in combinazione, possono portare alcune persone a sperimentare più sostanze, non la cannabis in sé.
In Italia e in Europa, dove la narrativa del “portale” continua a essere ripetuta, i risultati dello studio giapponese rappresentano un campanello d’allarme. Non perché dimostrino una volta per tutte che la teoria del passaggio è falsa, ma perché mostrano quanto sia fragile quando viene trattata come dogma. Le politiche basate su questo presupposto rischiano di essere inefficaci e, paradossalmente, controproducenti: spingono chi consuma cannabis in circuiti illegali dove l’accesso ad altre sostanze è più facile, contribuendo così proprio al fenomeno che pretendono di combattere.
Alla luce di tutto questo, la “teoria del passaggio” appare oggi più come un credo ideologico che come una verità scientifica. È un mito che ha avuto funzione politica e pedagogica, ma che non regge al confronto con l’evidenza empirica. La cannabis non è un portale, ma una sostanza il cui significato e i cui effetti dipendono dal contesto, dalla persona e dalle politiche che la circondano. Continuare a interpretarla come un “cancello” verso la perdizione significa restare prigionieri di un racconto moralistico, anziché costruire una cultura delle droghe basata su conoscenza, complessità e responsabilità.

