Tre tribunali smentiscono il governo sulla canapa: “Senza prove scientifiche, nessun reato”
Nel giro di due giorni, tre corti italiane – Palermo, Belluno e Torino – hanno demolito le fondamenta del decreto sicurezza del governo Meloni in materia di canapa industriale. Tra il 12 e il 14 ottobre, i magistrati hanno infatti depositato sentenze che ridimensionano la linea repressiva dell’esecutivo, il quale aveva assimilato la cosiddetta cannabis light alle sostanze stupefacenti. I giudici hanno ricordato un principio tanto semplice quanto disatteso: non si può parlare di reato senza un’analisi di laboratorio che dimostri un contenuto di THC superiore ai limiti fissati dalla legge.
A Belluno, la procura ha disposto la scarcerazione immediata di un agricoltore arrestato il 10 ottobre. L’ordinanza precisa che “non emergono elementi univoci di spaccio” e che il solo peso della pianta non basta a sostenere accuse di traffico. Il provvedimento, emesso ai sensi dell’articolo 121 disp. att. c.p.p., sottolinea che la valutazione della condotta dipende dall’esito degli accertamenti tecnici.
Anche a Palermo il giudice ha annullato il sequestro di infiorescenze presso un’azienda agricola, evidenziando l’assenza di prove sull’efficacia drogante e ribadendo che l’aspetto botanico non costituisce, di per sé, un illecito.
Infine, a Torino, la procura ha chiesto e ottenuto l’archiviazione di un procedimento per la vendita di canapa light: i test avevano rilevato la presenza di THC, ma senza indicarne la quantità, rendendo impossibile dimostrare qualsiasi effetto stupefacente.
La linea comune: contano i dati, non i sospetti
In tutte e tre le pronunce, i giudici si sono richiamati alla relazione n. 33/2025 dell’Ufficio del Massimario della Cassazione. Secondo il documento, l’articolo 18 della legge 80/2025 non introduce nuovi divieti, ma si limita a riepilogare la normativa esistente. Di conseguenza, la legge va letta in modo coerente con la Costituzione e con il diritto europeo, che impongono la verifica “tecnico-scientifica dell’offensività concreta”. Il discrimine tra legalità e reato è dunque il dato scientifico: solo analisi precise, svolte in contraddittorio e con campioni rappresentativi, possono accertare l’effettiva presenza di THC oltre soglia.
I test rapidi usati sul campo dalle forze dell’ordine – i cosiddetti narcotest – vengono giudicati inaffidabili, poiché segnalano genericamente la presenza di cannabinoidi, risultando positivi anche per prodotti perfettamente legali. Secondo i tribunali, la procedura corretta deve prevedere: campionamento certificato, doppio prelievo per eventuale controanalisi, catena di custodia, laboratorio accreditato e misurazione del THC “attivo” su campione a peso costante. Solo così si evitano sequestri “a vista” e processi destinati a concludersi con l’archiviazione, dopo mesi di blocco produttivo e spese a carico dei contribuenti.
“Quello che era legale resta legale”
Per Mattia Cusani, presidente di Canapa Sativa Italia, le decisioni rappresentano una svolta: “Le corti stanno riconoscendo che la legge 80 non cambia nulla rispetto al quadro precedente e alle Sezioni Unite del 2019. Ciò che era legale continua a esserlo, e ciò che era illegale resta tale”. Cusani annuncia dissequestri imminenti e nuove azioni civili in diversi tribunali, oltre a ricordare che resta aperta la questione delle officinali – la classificazione della canapa tra le piante medicinali autorizzate alla coltivazione e trasformazione – su cui dovrà pronunciarsi a breve il Consiglio di Stato, dopo un primo successo ottenuto dalla categoria.
Un comparto strategico per l’economia
Le carte giudiziarie e le ultime pronunce confermano che il comparto della canapa industriale non è un fenomeno marginale, ma una filiera agricola strutturata che genera occupazione, ricerca e export. L’Italia è tra i principali produttori europei e la chiusura del mercato delle infiorescenze metterebbe a rischio centinaia di milioni di euro e migliaia di posti di lavoro, senza apportare alcun vantaggio concreto alla sicurezza pubblica. La giurisprudenza di Trento e di altre corti ha già chiarito che, sotto lo 0,3% di THC, “non vi sono rischi tali da giustificare un divieto assoluto”. Lo stesso principio è stato ripreso dalla Cassazione, che invita le procure a muoversi secondo il criterio di proporzionalità e dell’offensività reale dei fatti.
Verso una giurisprudenza uniforme
Le decisioni di Palermo, Belluno e Torino arrivano a un anno dal decreto firmato dai ministri Piantedosi e Lollobrigida, che aveva imposto l’equiparazione tra infiorescenze di canapa e droghe. Ma il fronte giudiziario si sta rapidamente ricompattando su una posizione opposta: quella che privilegia la verifica scientifica rispetto agli automatismi ideologici. A Bruxelles, intanto, prosegue il percorso di armonizzazione normativa, con la prospettiva di una soglia di THC più coerente con il mercato unico e il riconoscimento dell’uso agricolo integrale della pianta.
“Le istituzioni italiane stanno solo guadagnando tempo,” commenta ancora Cusani. Ma le corti, conclude, “chiedono dati, non slogan. Senza prove sull’efficacia drogante, la canapa rimane legale.” E con queste sentenze, il decreto sicurezza torna a vacillare, non per ragioni politiche, ma per semplice forza dei fatti.
I professionisti della disinformazione
Negli ultimi giorni, una parte significativa della stampa nazionale – dalle grandi testate ai piccoli giornali locali – ha dimostrato ancora una volta quanto sia fragile il confine tra informazione e disinformazione. Numerosi articoli hanno diffuso notizie imprecise, quando non apertamente false, accomunando la canapa industriale alle sostanze stupefacenti e contribuendo così a una narrativa distorta e dannosa.
Questo atteggiamento non solo tradisce un grave difetto di approfondimento giornalistico, ma alimenta un clima di diffamazione nei confronti di un intero settore economico fatto di imprenditori, agricoltori e artigiani che operano nel pieno rispetto della legge.
Equiparare la canapa industriale – riconosciuta e regolamentata a livello europeo per i suoi usi sostenibili in agricoltura, tessile e bioedilizia – alla droga è un errore grossolano che denota superficialità, se non malafede. Il giornalismo, chiamato a informare con rigore e responsabilità, non può permettersi di diventare megafono di paure infondate e pregiudizi, danneggiando così un comparto che rappresenta un pilastro dell’economia verde e dell’innovazione sostenibile italiana.

