Ieri, 26 maggio 2025, il governo Meloni ha posto la questione di fiducia sul Decreto Sicurezza alla Camera dei Deputati. La decisione è stata annunciata durante la seduta parlamentare, con l’obiettivo di accelerare l’approvazione del disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 48 dell’11 aprile 2025, che introduce disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, tutela del personale in servizio e vittime dell’usura.
La richiesta di fiducia ha suscitato forti reazioni da parte delle opposizioni, che hanno denunciato una compressione del dibattito parlamentare e l’adozione di metodi autoritari da parte della maggioranza. Durante la discussione, il centrosinistra ha attuato un ostruzionismo parlamentare, con numerosi interventi volti a rallentare l’iter del provvedimento.
Il governo dal manganello facile
Parallelamente, si sono svolte manifestazioni di protesta nelle strade di Roma, dove i manifestanti hanno espresso il loro dissenso nei confronti del decreto, considerato liberticida e repressivo. Le tensioni sono sfociate in scontri con le forze dell’ordine, con alcuni feriti e contusi.
I manifestanti sono stati accusati di aver preso parte alla protesta muniti di caschi, barriere e, in alcuni casi, persino di oggetti assimilabili a manganelli. Tali circostanze risultano confermate dalle immagini diffuse. Tuttavia, in un contesto sociale e politico in cui la partecipazione alle manifestazioni comporta rischi concreti per l’incolumità personale, è comprensibile che alcuni individui sentano l’esigenza di proteggersi.

Del resto, gli episodi recenti – così come quelli più lontani – testimoniano le conseguenze spesso gravi per chi scende in piazza senza alcuna forma di protezione. È emblematico come, paradossalmente, le forze dell’ordine tendano ad adottare atteggiamenti più aggressivi nei confronti di manifestanti che appaiono disarmati o vulnerabili. A tal proposito, è significativo che tra i feriti negli scontri avvenuti ieri a Roma figurino prevalentemente manifestanti privi di protezioni personali, come successo a Luca Blasi, assessore alla Cultura del III Municipio e attivista di Sinistra Italiana, colpito alla testa da una manganellata, ma quella della giustizia sia chiaro.

Resta infine da interrogarsi su un’ambiguità diffusa nel dibattito pubblico: in un contesto di manifestazione, dove anche le persone disarmate vengono brutalmente aggredite dalle forze dell’ordine; perché un agente munito di casco, scudo e manganello che percuote un manifestante viene spesso percepito come esecutore della legge, mentre un manifestante che tenta di proteggersi con mezzi simili viene etichettato come violento o aggressore? Si tratta di una evidente dissonanza cognitiva, sintomatica di una narrazione sbilanciata che meriterebbe una riflessione più approfondita.
In Italia, l’introduzione di codici identificativi sui caschi degli agenti di polizia durante le manifestazioni è oggetto di un acceso dibattito. Attualmente, non esiste un obbligo legale che imponga agli agenti di indossare tali codici durante le operazioni di ordine pubblico. Il Ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha recentemente ribadito la sua ferma opposizione a questa misura, definendo la discussione sull’argomento “sterile” e “pretestuosa”.
Questa posizione contrasta con le pratiche adottate nella maggior parte dei paesi europei, dove l’uso di codici identificativi per gli agenti di polizia è una norma consolidata. In particolare, 21 dei 28 Stati membri dell’Unione Europea hanno introdotto l’obbligo di codici identificativi sulle divise degli agenti, tra cui Belgio, Francia, Germania e Spagna. L’Italia, insieme ad Austria, Cipro, Lussemburgo e Paesi Bassi, rimane tra i pochi paesi a non aver adottato tale misura.
Organizzazioni per i diritti umani, come Amnesty International, sostengono l’introduzione di codici identificativi individuali per gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico, al fine di garantire trasparenza e responsabilità. Tuttavia, le autorità italiane esprimono preoccupazioni riguardo alla sicurezza e alla privacy degli agenti, temendo possibili ritorsioni personali.
A parer mio, consentire a un agente delle forze dell’ordine di esercitare l’uso della forza senza un sistema di identificazione personale rappresenta un grave vulnus allo stato di diritto. Una simile condizione richiama più i principi propri di una società primitiva che quelli di una democrazia matura e garantista.
Ritengo inoltre che la reale motivazione per cui il ministro Piantedosi continui a opporsi all’introduzione dei codici identificativi sui caschi degli agenti sia piuttosto chiara: qualora ogni intervento violento potesse essere ricondotto a un singolo responsabile, i tribunali italiani rischierebbero di essere sovraccaricati da una mole considerevole di denunce da parte di cittadini vittime di abusi. In questo senso, l’assenza di tracciabilità individuale finisce per tutelare l’impunità piuttosto che garantire la giustizia. Questa è l’Italia nel 2025.
La fiducia ad un governo che sfiducia i cittadini
Stiamo assistendo a uno degli episodi più preoccupanti e deludenti della storia parlamentare della Repubblica italiana contemporanea. Il comportamento del Governo, che ha di fatto impedito all’opposizione di esercitare pienamente il proprio diritto-dovere di esaminare e discutere gli emendamenti, rappresenta un grave danno al corretto funzionamento del processo democratico.

Il Parlamento sembra essere stato ridotto a mero esecutore della volontà dell’esecutivo, svilendo così il principio della separazione dei poteri e il ruolo centrale che l’Assemblea legislativa dovrebbe avere in un sistema democratico. In tale contesto, appare particolarmente discutibile la condotta del Presidente della Camera, Lorenzo Fontana, la cui imparzialità è stata messa in discussione nel momento in cui ha dato l’impressione di agire più come garante della maggioranza di governo che come garante dell’intera istituzione parlamentare.
Questa dinamica non solo mina il confronto democratico, ma alimenta un clima politico pericolosamente sbilanciato, in cui il dissenso parlamentare viene marginalizzato e il dibattito ridotto a formalità. Una democrazia sana si misura anche dalla capacità di dare spazio alle opposizioni, non di zittirle.
Gli imprenditori della canapa industriale rafforzano la propria resistenza
Sulla base degli ultimi sviluppi e confronti nel settore, appare chiaro che gli imprenditori della canapa industriale non intendono arretrare di fronte alla fiducia posta sul Decreto Sicurezza, e in particolare sull’articolo 18, il quale rischia di compromettere gravemente – se non annientare del tutto – l’intera filiera della canapicoltura in Italia. Le attività commerciali del comparto resteranno operative e, qualora dovessero emergere contestazioni o procedimenti legali, gli stessi verranno affrontati nelle sedi opportune con il pieno supporto di legali specializzati, pronti a impugnare ogni provvedimento ritenuto lesivo dei diritti degli operatori.
Va ricordato che, sin dalla nascita di questo settore, le imprese legate alla canapa hanno dovuto confrontarsi con un contesto normativo ambiguo, caratterizzato da un atteggiamento istituzionale vile, ostile, privo di apertura al dialogo e al confronto costruttivo. È inaccettabile che lavoratori e imprenditori onesti debbano continuare a difendersi da uno Stato che sembra più incline a criminalizzare che a regolamentare con chiarezza.
Per questo, si stanno già predisponendo forme di resistenza attiva che comprendono disobbedienza civile, mobilitazioni pubbliche e ricorsi giuridici, con l’obiettivo di tutelare non solo le attività economiche, ma anche la dignità personale e collettiva di un’intera categoria produttiva. Il settore della canapa italiana non accetterà passivamente un arretramento dei propri diritti: il lavoro legale, trasparente e regolato non può essere sacrificato sull’altare di logiche proibizioniste, prive di fondamento, scientifico e sociale.
Roberto D’Aponte – Fondatore di Spazio Canapa