Il 14 ottobre 2007, Aldo Bianzino, 44 anni, morì in carcere in circostanze mai del tutto chiarite. Arrestato per il possesso di una piccola quantità di cannabis — un reato di lieve entità — fu rinchiuso a Perugia in applicazione della legge Fini-Giovanardi. Due giorni dopo, il suo corpo venne ritrovato senza vita, con evidenti segni di percosse.
Le autorità parlarono subito di un malore improvviso, ma le lesioni riscontrate sul cadavere sollevarono pesanti dubbi sull’ipotesi ufficiale. La vicenda, come troppe altre, fu archiviata in fretta, senza un’indagine approfondita né un reale accertamento delle responsabilità.
Il caso Bianzino non è un episodio isolato. Ricorda da vicino quello di Stefano Cucchi: un altro cittadino morto sotto la custodia dello Stato, vittima di violenze e di un sistema che troppo spesso difende se stesso invece della verità. Se per Cucchi, dopo anni di battaglie giudiziarie, si è arrivati a una condanna, per Aldo Bianzino la giustizia è rimasta un miraggio.
L’assenza di colpevoli e di risposte concrete mette in luce un problema profondo e sistemico nella gestione della detenzione in Italia. Un problema fatto di silenzi, mancanza di trasparenza e paura di denunciare. Una cultura dell’omertà e dell’impunità che continua a proteggere i forti e a schiacciare i deboli.
Come recita un vecchio detto, “tra cani non si mozzicano”. E in casi come questo, la frase suona terribilmente attuale. La bella Italia, purtroppo, è anche questa: un Paese dove la verità, a volte, resta dietro le sbarre insieme alla giustizia.
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